Se questo è un uomo è il primo libro pubblicato da Primo Levi, che lo scrisse dopo essere sopravvissuto al Lager di sterminio di Auschwitz e dopo aver
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l’Europa intera in un viaggio di ritorno durato più di otto mesi. Alla fine del testo l’autore indica due luoghi e due date, «Avigliana-Torino, dicembre 1945 - gennaio 1947»: ad Avigliana c’era la sede della fabbrica dove lo avevano appena
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come chimico, a Torino la casa dov’era nato e dove avrebbe
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per tutta la sua vita. Levi andò scrivendo quel suo primo libro in qualsiasi ritaglio di tempo disponibile, e quando non scriveva raccontava a voce la propria esperienza a chiunque incontrasse: il
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era per lui un bisogno primario come il cibo.
La prima edizione del libro venne
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da una piccola casa editrice torinese, la De Silva, diretta da Franco Antonicelli, dopo che alcuni grandi editori, fra cui Einaudi, avevano
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il manoscritto. Uscì nell’autunno del 1947, in 2.500 copie; Antonicelli decise di sostituire, al titolo scelto da Levi, I sommersi e i salvati , il fortunatissimo Se questo è un uomo . L’opera ebbe alcune recensioni autorevoli, la più entusiasta delle quali fu quella di Italo Calvino, che lo definì il libro più bello uscito dall’esperienza della deportazione. Ci vollero poi molti decenni affinché Levi venisse
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uno scrittore dalla statura pari a quella del testimone. Anni dopo, nel 1958, Se questo è un uomo fu ristampato da Einaudi, nella collana «Saggi», con alcune varianti (tra cui un capitolo nuovo, Iniziazione ) e con un risvolto non firmato ma steso da Calvino. Da quel momento in poi è stato
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in decine di lingue, ed è ormai considerato una delle opere più alte sullo sterminio ebraico, sia per la precisione della testimonianza sia per il suo risultato letterario. Con un esercizio di attenzione assoluta, Levi ha visto e
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Auschwitz fino in fondo, e ne ha saputo comunicare tanto l’essenza quanto i minimi dettagli.
In Se questo è un uomo Levi svolge il racconto di un intero anno, dal febbraio 1944 al 27 gennaio 1945,
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nel Lager di Buna-Monowitz. La Buna era uno dei quarantaquattro campi satelliti di Auschwitz, in Alta Slesia, nel territorio polacco; doveva il suo nome a una fabbrica di gomma sintetica – la Buna, per l’appunto – che, come Levi racconta, non poté mai entrare in funzione. La storia comincia con l’internamento dell’autore nel campo per ebrei di Fossoli, presso Carpi, e termina con la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito russo. Levi
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a sopravvivere grazie al cibo supplementare procuratogli segretamente da un operaio italiano, Lorenzo, e grazie al fatto che i tedeschi intendevano cominciare a Monowitz la produzione della gomma sintetica: laureato in chimica, venne “assunto” dopo uno sconcertante esame che figura tra i vertici del racconto, e poté
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alcuni mesi nel laboratorio industriale del campo, al riparo dal gelo e dai lavori pesanti.
Secondo la testimonianza dell’autore, le varie parti di Se questo è un uomo non vennero
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in ordine cronologico, ma secondo l’urgenza del raccontare: l’ultimo capitolo, Storia di dieci giorni , che è steso in forma di diario, nacque per primo. Pochi altri libri portano impresso come questo il segno della necessità assoluta. Non per niente l’opera si apre con una poesia (Shemà , in ebraico: «Ascolta»), che dopo aver chiesto al lettore di considerare se ancora si possa definire «uomo» colui «Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no», gli comanda attenzione e memoria per quanto gli sarà
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. Levi non chiede compassione, ma consapevolezza e vigilanza morale: e infatti, dopo questa poesia, che è
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sulla preghiera fondamentale della religione ebraica e che rappresenta un vero e proprio scoppio d’ira biblica
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subito prima del racconto vero e proprio, il tono di Levi si mantiene inflessibilmente mite. La sua è una voce che non giudica e non odia, ma nemmeno è
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a perdonare gli aguzzini; il suo intento è «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano».
Levi descrive senza morbosità, quindi con efficacia moltiplicata, una realtà indescrivibile: «per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua
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di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo». La deportazione nei carri bestiame, le percosse senza ragione, gli ordini urlati in una lingua straniera, il lavoro da schiavi, l’inedia, le selezioni per mandare in gas gli inabili al lavoro, la guerra di ciascuno contro ciascuno, le gerarchie visibili e invisibili, le figure dei privilegiati (Prominenten ) e dei morti viventi (Muselmänner : «Mussulmani»), l’abbrutimento assoluto e l’etica
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sul raggiro e la sopraffazione, ma anche i rari amici, e i compagni di prigionia che Levi delinea da straordinario ritrattista fisiognomico-morale.
Il Lager appare come un mostruoso esperimento antropologico, che rivela cosa sia
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e cosa sia invece acquisito nell’animo umano. La voce, la lingua, lo sguardo, l’orecchio di Levi sono insieme quelli dello scienziato e dell’umanista. La sua sintassi è modellata sui classici latini e italiani, il respiro epico ha la schiettezza arcaica di Omero, l’energia metaforica proviene da Dante (celeberrimo l'episodio in cui
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a memoria per un compagno francese – il «Pikolo» – il canto di Ulisse), l’arguzia e l’inventiva linguistica sono ispirate, paradossalmente, da Folengo e Rabelais: persino nel Lager, infatti, Levi riesce a venare di savio umorismo la sua prosa. Testimone e artista, Levi offre questo libro come uno specchio per le vittime, per i carnefici e per i comuni lettori.
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in diciotto brevi capitoli e conta meno di duecento pagine a stampa. Nel 1976 Levi gli aggiunse una Appendice , nella quale rispondeva alle domande che gli venivano
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più spesso nelle scuole dove andava a raccontare la sua esperienza: questo testo di riflessione è il primo nucleo de I sommersi e i salvati , l’estrema riflessione di Levi sul Lager, che sarà pubblicata nel 1986.